mercoledì 16 aprile 2008

L’altra metà della mia focaccia

Giovedì pomeriggio, stazione ferroviaria centrale della Spezia, Spezia che è in Italia, l’Italia che è in Europa. Sono lì su una panchina del marciapiede numero 2 che aspetto l’intercity per Milano, e mi mangio un bel pezzo di focaccia, di quella ben unta e croccante adatta alle merende dei ragazzi in gamba più che alla mia; 1 euro e 80, che da tempo la focaccia ha abbandonato la parità con il dollaro e oggi si è allineata al corso dell’oro, 294 euro l’oncia.

Mastico piano piano per non strafogare e guardo nel vuoto, là dove i binari si perdono nella caliginosa incertezza della prima pioggia di marzo. Una voce riempie il vuoto: me la dai un pezzo di focaccia? La voce, mite, un po’ strascicata nel velo di una certa qual dolcezza, di una certa qual pena, è la voce di un uomo che si è fermato davanti a me e quasi sfiora con la sua mano la carta unta della mia merenda.

Ho visto quell’uomo molte altre volte; se non era proprio lui gli era compagno: uno sbandato di stazione. Ho guardato quell’uomo, ho visto ciò che voleva, le ho dato un ultimo morso goloso e gliela ho lasciata. Metà buona della mia focaccia, un euro più o meno. Lui l’ha presa tra le mani, ha ringraziato e se ne è andato masticando un po’ più in là. E si è perso e non l’ho visto più.

Ho pensato a lungo alla focaccia e a quell’uomo che se ne andava lungo il marciapiede numero 2. E quello che ancora adesso mi turba è la mia sorpresa, la mia impreparazione a una richiesta così semplice, così diretta e definitiva. «Me la dai un pezzo di focaccia?». Sì, la focaccia che stai mangiando, un pezzo di quella, la parte che ti avanza, la mezzaluna con la corona seghettata del segno dei tuoi denti, quelli impiantati al titanio. Per le strade, e le stazioni, di questo Paese mi hanno chiesto mille cose, ma mai una parte di ciò che stavo mangiando, mai. Voglio dire che mi hanno chiesto da mangiare, non quello che avevo tra i denti. Un po’ di denaro per un panino, non il mio panino. A questo sono preparato, all’universale necessità del denaro, alla monetizzazione di ogni bisogno a cominciare dal più semplice, la fame. Un portafogli per me, una manciata di monete per quelli che chiedono, e questo è facile, si fa in un attimo, minuta redistribuzione casuale.

Mi scandalizza la mia impreparazione, la sorpresa per una richiesta così semplice, così banale, che mi ha impedito una risposta adeguata. A chi ti chiede il pane, il pane che hai in mano, che altro devi rispondere se non dando metà di quello che hai? Almeno metà di quello che hai nel portafogli. Perché ha il diritto, chi ha fame di un pezzo di focaccia mangiata per metà, il santo diritto di mangiarsi un panino al prosciutto, e due e tre, e un paio di cappuccini, e fette di torta, di quelle tutte colorate esposte sull’equivoco vassoio del buffet della stazione. E anche una bottiglia di vino; sì, che almeno una volta ha anche il diritto di sbronzarsi con la pancia piena, se sbronzarsi è quello che più vuole, è tutto quello che può. Se non hai il coraggio di dare tutto quello che hai, fai almeno a metà; questo a voler essere almeno un po’ cristiani. Colto alla sprovvista, tutto quello che ho saputo fare è dividere la mia focaccia con uno sconosciuto.

Ma in questo non c’è nessuna morale, nessuna lezione degna di essere riportata. Solo lo sgomento di restare stupiti di fronte a un po’ di fame, di fame di pane già masticato, alla stazione centrale di una città civile; la città dove sono cresciuto. Che dovrei conoscere come le mie tasche, che non dovrebbe riservarmi nessuna sorpresa.

Dieci anni fa, a Bogotà, mangiavo un piatto di asado a un tavolino all’aperto e mi si era fatta attorno una coda di bambini. Stanno aspettando che lei finisca per pulire il piatto, mi disse il cameriere, chiedendomi se volevo che li cacciasse. Ho lasciato loro il piatto com’era e ho cercato un altro locale, al chiuso, e non mi sono sentito per niente generoso, ma solo un vile che se la batte. Ma che altro avrei potuto fare, forse cambiare il mondo, rivoltare le sorti dell’America Latina? No, naturalmente, no. E quei bambini sono cresciuti, almeno quelli che ci sono riusciti a forza di pulire avanzi, e uno di loro è venuto a trovarmi alla stazione.


Articolo tratto da http://www.ilsecoloxix.it/speciali/view.php?DIR=/speciali/2008/lettere%20maggiani/documenti/9%20marzo/&CODE=5e74fed4-ee82-11dc-b041-0003badbebe4

2 commenti:

tangalor ha detto...

Cacchio! Brividi nel leggere, questa è pura verità... quante volte badiamo solo a noi stessi, ciechi delle realtà che ci circondano!

ViAggiAtRiCe ha detto...

spiazzante
mi ha ricordato quando a scuola portavi la merenda da casa e puntualmente c'era il compagnetto che ti chiedeva un pezzo perche la tua merenda era molto meglio della sua..oppure capitava a te..vedevi il panino burro e prosciutto del compagno di banco e proprio non resistevi.
alla fine si divideva quel che c'era..un po di egoismo inizialmente ti portava a dire che no, assolutamente no, avresti diviso la tua adorata merenda al cioccolato. poi pensavi che, si, forse si poteva fare, poi sarebbe successo anche il contrario e tu un no non l'avresti voluto sentire..
erano i primi giochi della vita, dove impari a condividere, a fare amicizia, a vivere.
adesso che sono grande per me il pasto diventa un mezzo per condividere, per legare con chi è seduto alal tua stessa tavola. davanti a una necessita animale come la fame tutti gli uomini, tutti, sono uguali. non c'è chi ha piu fame dell'altro, non c'è chi si merita di piu il cibo. tutti hanno il diritto di mangiare. e allora non c'è migliore occasione per sentirsi ancora parte di un'umanita spesso messa da parte dall'individualismo, se non dividere ciò che si mangia con chi è seduto alla tua tavola. poco importa se è uno sconosciuto e la tavola è una panchina di una stazione..